Manifesto smarketing°

di etica della comunicazione


MA.COM.E realease 0.3

Non è scolpito nel marmo

È open: è un processo che si discute progressivamente, aperto ai cambiamenti e alle collaborazioni.

Non è neanche scolpito nella sabbia: è aggiornabile, non labile. Cresce, cambia e si aggiorna fin dalla prima versione (la “Carta di Caldé” del 2009).
Dal 2022 abbiamo stabilito l’unica cosa definitiva: non ci sarà una versione definitiva. 
Preferiamo che funzioni sempre meglio, quindi sarà aggiornato come i software liberi numerando le progressive release; la numerazione riparte da zero: un po’ per scaramanzia, un po’ per onorare la simbolica rinascita del dopo-covid.

Non è il Verbo, però ci impegna

Questo Manifesto non intende sancire cosa si debba considerare “comunicazione etica” (sarebbe presuntuoso, un po’ bigotto e probabilmente poco etico).

Semplicemente chi sottoscrive questo manifesto dichiara che si impegna, in modo formale e pubblico, a lavorare rispettandolo.
Non sono regolette moralistiche (quei limiti non ci piacciono), sono paletti per determinare il campo di gioco, senza i quali il gioco non è bello.
E ci piace suggerire cosa fare, non cosa non fare.
È un impegno serio, ma libero.


Come chi coltiva un cibo bio evita i veleni perché rispetta la biologia che ci nutrirà, così anche noi che coltiviamo interazioni cerchiamo un equilibrio vivo e dinamico, quindi un’ecologia, tra coloro che comunicano.

In questo manifesto dichiariamo come e perché. Evitiamo la manipolazione, l’invadenza, la mistificazione e la disinformazione che inquinano questa ecologia in cui vivono i manufatti creativi, estetici e tecnici, quelli che noi produciamo e quelli prodotti da tutti coloro che noi incoraggiamo a diventare comunicatori e comunicatrici in modo etico: autonomo, libero e sempre più “abbastanza capaci”.

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Noi che sottoscriviamo questo manifesto lavoriamo in modo paritetico ed orizzontale. Evitiamo anche l’auto-sfruttamento e abbiamo smesso di ammirare chi lavora tanto.
Meglio ammirare chi lavora bene: oggi serve più qualità; la quantità invece spesso è un problema.

L’idea di una linea di comando piramidale non ci piaceva neanche prima, nel mondo analogico. Adesso, in un mondo digitalizzato, è pericolosamente obsoleta e inefficiente: non esiste leader che con la sua singola mente possa adeguarsi alla complessità intorno a noi.

Lavorare insieme non si limita all’équipe che realizza qualche task, si tratta di perseguire insieme la visione etica generale, aggiornarla spesso e conseguentemente prendere insieme le decisioni; quelle importanti insieme, quelle minute fidandosi reciprocamente.

Ne consegue anche che le differenze di retribuzione sono azzerate o molto ridotte, per evitare ingiustizie e sperequazioni.
Significa anche che si guarda alla cura del lavoro e alla sua efficacia e non alle ore passate sul luogo di lavoro (nel nostro caso: davanti ad un monitor); che si rispetta il resto della vita slegata dal lavoro ( e comunque il lavoro, in via indiretta, ne beneficia).


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È diventato un problema: essere capaci di persuadere e trascinare gli altri non significa automaticamente saperli portare nella direzione giusta: non ci serve l’entusiasmante capomandria che ci porta nel burrone.

Occorre imparare a “pensare insieme” esaltando il contributo individuale in processi mentali intersoggettivi. È una strada faticosa, specialmente prima di farci l’abitudine, ma è l’unica.


Significa che dobbiamo accollarci la nostra responsabilità personale: se si finisce nel burrone e ci si fa male, è troppo comodo dare la colpa ai capomandria che ci hanno affascinato.
Significa saper contribuire, spiegare le proprie intuizioni chiarendole a sé e agli altri. Quindi ogni idea progettuale deve lasciarsi perturbare da altri pensieri e insieme ad essi prendere la forma di un processo vivente.

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Cooperazione, terzo settore, agricoltura ed artigianato di nicchia o di piccola scala, creatività digitale, commercio equo-solidale, imprese valoriali attente all’ambiente e alle relazioni sociali, all’economia verde, circolare, alle produzioni artistiche… Lo smarketing è dedicato a tutte le forme di economia che chiamiamo “altre”, ma che probabilmente sono l’economia vera, oikos nomos: quella che fa funzionare la casa comune.

Sembrano economie marginali e invece insieme fanno una quota notevole dell’economia nazionale, è quella che ha il più basso costo di creazione di ogni posto di lavoro, è quella più resiliente alle varie crisi, è meno esposta al debito, è spesso generativa di innovazioni tecniche e sociali, è meglio inclusiva delle diversità di ogni tipo.
Però non sempre è brava a raccontarsi, a incontrare la domanda e co-progettare gli aspetti tecnici: noi lavoriamo per difendere il suo lavoro e la sua idea di lavoro.
Difenderla non significa raccontare quanto è buona attraverso un “marketing alternativo”: vogliamo facilitare la sua organizzazione, lo scambio diretto tra chi produce e chi acquista, la messa in rete di chi produce e anche la rete tra loro e chi di mestiere si occupa di comunicare, progettare, organizzare, distribuzione, logistica e normative.

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Anzi spesso sono contrari.
Sono diversi gli scopi, le retoriche, le estetiche, cambiano i mezzi, gli stili, i ruoli professionali, è radicalmente diversa la relazione tra agenzia e cliente. Cambiano (moltissimo) i budget

Noi che conosciamo il marketing dall’interno vediamo che è esattamente l’epicentro di questa dis-educazione estetica ed etica che ci bombarda incessantemente.
Ci immerge in immagini e narrazioni così formidabili che le storie vere delle persone ci annegano dentro; è talmente ovvio che dirlo sembra banale, ma senza marketing questo capitalismo non potrebbe capovolgere il Clima, dilapidare le risorse e affamare i continenti per darci in cambio tonnellate di robaccia seriale che finisce rapidamente nelle discariche.
Comunicare bene serve a rifondare i concetti di ricchezza, di successo e di benessere, più la gente è felice e conviviale, meno ha bisogno di impoverirsi per comprare cose inutili.
Sappiamo che le cose importanti della vita non sono in vendita; la comunicazione umana viene invece pervertita per convincerci a sostituire con le merci i nostri sentimenti profondi.

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L’innovazione tecnologica serve a licenziare le persone o invece a ridurre il loro tempo di lavoro?
Da quasi tre secoli dipende da chi possiede le macchine: quali, come e per che scopo.

Dopo il mondo operaio e quello contadino, è toccato agli uffici; ora anche commercio e logistica: un popolo senza stipendio? E poi chi li compra tutti quei container di roba fatta dai robot? 

Cominciamo a preservarci con micro-economie generative.
Invece di farci licenziare dagli algoritmi, cominciamo ad assumere le macchine.
Impariamo a usarle bene, sempre meglio. Ricordiamoci che ci mettono un attimo, a passare da soluzione a problema e viceversa, quell’attimo è un confine mobile che attraversa le nostre biografie, seguirlo è faticoso ma divertente; approfittiamo che ora sono sempre più piccole, ormai sono delle protesi che ci portiamo in tasca.


Sono tutte macchine per comunicare o per fare qualcosa da comunicare.
Comunicare in senso ampio: sapere, decidere, dibattere, ricordare, paragonare i numeri, pensare insieme, vedere ed essere visto. Quindi è sicuro: saperle usare bene è una questione di potere.

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La competenza tecnica può far male, se diventiamo simili a quelli che Ivan Illich chiamava “esperti di troppo”:  quelli che si sostituiscono completamente alla persona “aiutata” e così la deprivano dell’abilità di cavarsela da sé. 
È un errore serio in questo mondo sempre meno intermediato, in cui ogni persona ha bisogno di curare il self-help per riuscire, senza troppo stress, ad essere sempre più eclettica e multi-professionale.
Per evitare fraintendimenti: più capace da sola, ma meno sola.
Invitiamo chi ha abilità tecniche a invertire la rotta: può onorare la sua specializzazione assumendo un ruolo facilitante e di mediazione: ti insegno a fare a meno di me.

Questo ci sembra raccomandabile in tanti campi disparati, noi testimoniamo con certezza che serve nella comunicazione: tutti gli esseri umani oggi sono chiamati a scambiarsi messaggi coi nuovi mezzi, con essi si pensa, si scambiano emozioni, si crea, si ricorda, si progetta e si decide.
Il nostro compito di professionisti e professioniste è rendere questo processo tecnicamente più fluido e umanamente più ricco.
Lo facciamo con corsi, affiancamenti e co-progettando ogni lavoro.

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Lavoriamo per stare bene con gli altri, per trovare soddisfazioni psicologiche, per creare qualcosa di nuovo, per contribuire al miglioramento generale, e poi anche per guadagnarci una situazione economica tranquilla e il più possibile continuativa.
Vale per le singole persone e per le organizzazioni.

Quindi il denaro è solo uno di tanti motivi per i quali un’organizzazione comunica, le persone in essa lavorano e vengono continuamente scambiate conversazioni con tutti gli interessati interni ed esterni.

Al contrario del marketing commerciale classico (teso a vendere molto e fatturare il massimo a qualsiasi costo eccitando il consumismo) noi consideriamo la qualità stessa della comunicazione come un valore.
Vale se è non manipolativa e fonda un patto di reciproca lealtà con tutta la filiera. Il valore economico del prodotto o del servizio diventa la manifestazione esteriore e riconosciuta, importante ma non unica, di tale ecologia.

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Abbiamo imparato dall’esperienza che le organizzazioni possono essere fluide o nevrotiche a seconda del modo più o meno onesto e trasparente con cui al loro interno si scambiano le informazioni e le creazioni per i processi progettuali, organizzativi, creativi e decisionali.

La gradevolezza del posto di lavoro consiste in gran parte nella qualità della comunicazione interna.
Quando nelle riunioni aziendali sulle slides  appaiono parole come mission, efficienza, efficacia, goals… ricordiamo che passa tutto da lì: quando un’organizzazione è nevrotica, si spreca un sacco di tempo e fatica in entropia che non produce altro che stress.

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Valori è anagramma di lavori. È chiaro che è il nostro sostentamento e quindi cerchiamo lavori, ma accettare disvalori porta a dislavori.
Vogliamo lavorare bene e non potremmo farlo accettando come clienti persone che non stimano importanti quei capisaldi etici che per noi sono fondamentali.

Ovviamente non tutti quelli che hanno le nostre idee hanno da subito la forza di dire no a clienti poco valoriali: in questo mercato del lavoro è difficile non essere ricattabili; per questo diciamo che lo smarketing è un processo di liberazione progressivo, che può essere graduale via via che ci si emancipa.

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Un’organizzazione, un prodotto, un servizio hanno un’identità che nasce dalla sua ecologia aziendale, dalla sua storia e dalle conversazioni che scambia col proprio contesto.
Noi facciamo il contrario di quello che si pratica nel marketing convenzionale, che pianifica a tavolino la personalità di un brand; noi piuttosto aiutiamo l’organizzazione ad aver coscienza della propria natura, a definire le proprie peculiarità e farle emergere in modo chiaro e sintetico.

Per questo conviene comunicare le sue qualità con almeno cinque criteri: essere sinceri, leali, verificabili, reciproci e non manipolativi.
Adottiamo questi criteri non per buonismo, ingenuità o velleità, ma perché sono l’unico modo per esistere nel mondo reale com’è davvero. Invece chi vive un’identità piena di fake, bluff e idealizzazioni, cade nella logica mentale delle sue stesse balle e finisce nel mondo parallelo del suo storytelling. Guardate quante aziende italiane hanno creduto di essere furbe e poi sono finite male.

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Poco ingombro degli spazi, essenzialità minimalista degli elementi visivi, cura attenta dei dettagli, piccole dimensioni, chiara scalettatura dei testi, scrivere in orale e parlare in visivo. E molta aria nella pagina.

A ciascuno la sua strada estetica, è ovvio; noi di smarketing° non abbiamo nessuna “linea” da dare, ma vi spieghiamo la nostra: pulizia, essenzialità e chiarezza.
Ci piace un po’ di leggerezza, di garbo e di precisione in quest’overdose di segnali invadenti.

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Quiete visiva, uditiva, olfattiva e anche testuale, logica, di spazio intorno a sé… per percepire i segnali  lontani, per avvertire quelli interiori, per conversare sottovoce: è il contrario del chiasso che pretende una percezione accelerata, superficiale, ansiogena, da dimenticare subito.

Questi spazi di quiete sono stati intorno a noi per centinaia di secoli, erano un bene comune.
Oggi i brand famosi competono a chi grida più forte e saturano l’infosfera con messaggi sempre più sfacciati, ostinati, giganteschi, colorati, sexy e clamorosi… le nostre nicchie sono violate da una gara in cui vince il più ricco: colui che paga lo spreco, che può scommettere molti soldi dove la posta è un valore aggiunto vergognoso.
Ci hanno rubato questi spazi di tranquillità e dobbiamo riconquistarli: confliggendo, oppure ricostruendo nicchie di relazioni umane e tenere. Se siamo ancora capaci.
Noi ci proviamo e a volte ci riusciamo.

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I bambini possono credere che un pollo nasca già incellophanato sul bancone dei supermarket, ma poi cresciamo e dovremmo scoprire che tutto ha un prima e un dopo. Invece spesso dimentichiamo che ogni prodotto è il participio passato di produrre.

Quando si propaganda solo il prodotto nascondendo la filiera, è già una bugia.
Ci deve importare la sua storia dall’estrazione della materia prima fino a quello che succederà in discarica.
Infatti la storia di un buon prodotto, di solito, è una bella storia.

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Ogni essere umano è pieno di idee formidabili; ma non sono solo sue, sono nell’aria, ci attraversano, si accoppiano con altre idee…

Certo, se son nate nella propria mente le si ama come proprie, ma spesso val la pena di rinunciare al senso di possesso, perché per possedere un’idea la devi controllare, ma l’idea vuole muoversi, mescolarsi con le altre e fecondarsi. Nello sforzo inutile di controllarla, diventi vittima di una possessione e perdi la padronanza di te stesso come produttore di idee.
Invece se qualcun altro le condivide siamo più ricchi, non più poveri.
È così che la nostra specie ha inventato i linguaggi e gli utensili, altrimenti saremmo ancora sugli alberi. Da pochi secoli esiste il concetto di proprietà intellettuale che tutela sempre meno gli autori e gli inventori, ma sempre di più chi specula sulle loro idee. È un’idea ottocentesca.


Noi aderiamo al movimento della cultura open e consigliamo di utilizzare in modo consapevole, da utenti o da autori, le licenze Creative Commons.
Per questo smarketing° ha “il pallino della condivisione”: è quel tondino vuoto nel logotipo smarketing° là dove, di solito, vedete un segno privativo come ®, © o TM.

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Molti sottovalutano l’impatto ambientale dei mezzi di comunicazione.
Noi invece vediamo notevoli sprechi di carta, energia, materiali elettronici, carburante e materie plastiche.

Quindi perseguiamo la massima sostenibilità: invitiamo a stampare su carta solo materiali da conservare; scegliamo materiali espositivi naturali, provider che usano elettricità verde, formati di stampa piccoli con carta ecologica poco grammata non plastificata e con basse tirature; portiamo su internet la maggior parte della comunicazione istituzionale che di solito è cartacea, nei viaggi  cerchiamo di ridurre al minimo l’uso dell’aereo e nel quotidiano quello dell’auto,  in favore di mezzi più ecologici (bici, treni, mezzi pubblici, ecc), oltre ai normali accorgimenti che ciascuno singolarmente dovrebbe adottare.

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Il costo della comunicazione deve essere il più possibile contenuto, per non caricare il prezzo finale.
Per decenni si sono spesi importanti budget di marketing che prevedevano del lavoro creativo esternalizzato a un’agenzia e molte inserzioni e spot a pagamento; oggi converrebbe pensare a una buona coordinazione di immagine, che faccia la base ad un buon lavoro sui social in gran parte internalizzato.
Così è tutto è più economico, a patto di non risparmiare in ore di lavoro e in formazione.

A seconda dei casi: possiamo rinunciare del tutto alle inserzioni a pagamento; oppure si riduce al minimo l’acquisto di spazi pubblicitari privilegiando i periodici di nicchia e le radio di opinione e facendo attenzione all’effettiva indipendenza economica e politica della testata.


Il caso spinoso delle “sponsorizzate” sul web
Dove proprio occorrano inserzioni “sponsorizzate” sulle multinazionali del digitale (Facebook, Google,…) cerchiamo strategie di integrazione e razionalizzazione che permettano budget il più possibile limitati per generare il volano su spazi più liberi e disinteressati.
Non si tratta solo di risparmiare soldi, ma anche di sfuggire a una dipendenza: sappiamo che non è facile.
Con i nuovi algoritmi la questione è ancora più controversa, ma è evidente che più vogliamo essere “puri”, più occorre essere bravi.
Noi stiamo guidando a vista, seguiteci e dibattetene con noi.

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Sono gruppi di acquisto solidale di comunicazione, in cui vari soggetti collettivi insieme “comprano” supporti tecnici e formazione per comunicare meglio. Ne abbiamo già sperimentati e messi in pratica: con alcuni accorgimenti funzionano.

Sono ad es. consorzi di piccole imprese valoriali, accomunate da ambiti territoriali, di filiera o di categoria merceologica. Insieme contrattano servizi professionali per migliorare la loro comunicazione o anche altri (tecnici, informatici, logistici, fiscali…) o spazi di visibilità per fare fiere, eventi o rendersi visibili su media di nicchia o di opinione.
I principi di responsabilizzazione, collaborazione, solidarietà e trasparenza della filiera sono esplicitamente ispirati a quelli dei G.A.S. Tra essi, due:
Meglio promuoverci a vicenda: ci scambiamo visibilità a costo zero.
Non siamo concorrenti ma con-correnti: consideriamo competitor del piccolo produttore non chi gli somiglia ma la grande distribuzione organizzata, da cui ci si difende unendosi in rete.

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Il marketing ha una natura bellica e non ha mai abbandonato il suo vocabolario di guerra: strategie, campagne, conquiste, briefing, target…
Per uscire da questa mentalità conflittuale e predatoria cominciamo a cambiare parole.

Non basta riempirsi la bocca di web 3.0, collaborazione e sharing se, gratta gratta, il target è ancora nel mirino del cecchino e il brand somiglia ancora al marchio impresso a fuoco sulla carne dei nemici fatti schiavi.
Noi non ci stiamo, per noi il field non è terreno di conquista ma di coltivazione, da seminare, innaffiare, difendere dai parassiti… preferiamo usare i vocaboli biologici del mondo vivente.
Del linguaggio militare ci piace solo una parola: disertare.

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