Ma che c. ci faccio qui?

di Marco Geronimi Stoll

Capiterà anche a voi, di chiedervelo durante una riunione.
A me soccorre questa fulminante citazione di Jean Oury (*)

Il quale scrive sul dialogo inaccessibile:
Inaccessibile, certo. Perché la domanda “che cazzo ci faccio qui?” ( qu’est-ce que je fous là ?) resta senza risposta. E’ la sua virtù.
Io sono ancora a questo punto, dopo mezzo secolo di carriera, non so neanche dire bene perché.
Ci sono sempre quelli che sanno perché sono lì. Io li chiamo i “va-bene-di-sé” (les “ça-va-d’soi”). Loro sanno perché sono lì, ma non sono lì.
Non possono accogliere nessuno, sono troppo pieni di quello che credono di sapere per dar posto … alla funzione di accoglienza.
Poi ci sono gli altri, i “non-va-bene-di-sé” (les “ça-n’va-pas-d’soi”). Con quelli si può lavorare.

Jean Oury parla di situazioni psichiatriche.
Anch’io: con imprenditori, assessori, editori, giornalisti spesso la situazione è psichiatrica, molti di loro sanno perché sono lì ma non sono lì; sono troppo saturi di quello che credono di sapere, quindi non possono farsi perturbare.
Psichiatrica, sì: assessori che stanno per perdere le elezioni (avrebbero voluto cambiare il mondo ma in corso d’opera si erano distratti). Imprenditori che avrebbero voluto essere etici, ma prima della crisi l’idea etica sembrava un arredo, non un’architrave prima del terremoto.
Giornalisti che avrebbero voluto essere coraggiosi e graffianti, ma poi in corso d’opera si son messi a cantare nel coro e oggi non li legge quasi nessuno…

In corso d’opera ci sono stati anni di riunioni in cui si piacevano nel ruolo, erano ça-va-d’soi.
E’ come quando tuo figlio adolescente esce in canottiera a marzo per fare il macho, senza ascoltare il freddo perché tanto lui ha la primavera ce l’ha dentro incorporata di default; naturalmente l’indomani è a letto con la febbre che chiama mamma; tu puoi dire solo “te l’avevo detto”, che è un ruolo parecchio antipatico (e anche un po’ ça-va-d’soi).

Solo la perturbazione, con la sua dose di azzardo, può permettere la sorpresa e l’incontro creativo.
In questi anni la crisi diventa anche crisi dei ruoli. Il ruolo è come quei muscoli che quando ti dolgono li irrigidisci, così dopo un po’ fanno ancora più male.
Così proprio oggi che occorrono idee poco abituali, che le vecchie soluzioni sono diventate la causa del nuovo problema, proprio oggi mi capitano con maggior frequenza riunioni in cui devo chiedermi “Qu’est-ce que je fous là ?

Il bello, anzi il brutto, è che succede anche a riunioni che ho preparato io, magari con gente che stimo e che la pensa come me sulle vicissitudini del mondo .
Anche quando vai a proporre pubblicità “alternativa” molti clienti restano delusi se non fai il brillante, se non metti in scena lo show folkloristico del creativo vincente, se , invece di vendere il tuo prodotto con l’assertività dei manualetti americani, ti siedi, apri un tacquino e cominci a fare domande.
Nulla spiazza più il cliente di fargli le domande che servono, con l’aria del “ça-n’va-pas-d’soi”.  Ecco, questa è, appunto, quella perturbazione che permette la sorpresa e l’incontro, quindi la fiducia.
La soluzione di molti dei nuovi problemi, secondo me, passa da questo modo modesto ma ostinato di avere insieme idee ingegnose, cioè brillanti, eventualmente anche molto forti ma non necessariamente spettacolari, nel senso: non televisive.

Questo modo di lavorare è bello, ma funziona solo se è reciproco.
Qualcuno lo capisce bene. Qualcun altro, invece, ha i crampi ai muscoli del ruolo, mi guarda e pensa che io non sia la persona giusta.

Per chi non lo conosce, direi che Jean Oury con una certa approssimazione è il Franco Basaglia di lingua francese. Nel percorso per far gestire gli Ospedali Psichiatrici direttamente dai degenti, la sua équipe ha fatto alla la Clinique di La Borde (nella valle della Loira) quello che Basaglia e la sua squadra avevano fatto a Gorizia e Trieste.

(La citazione tratta da: à quelle heure passe le train… Conversation sur la folie par Jean Oury et Marie Depussé.  Ed. Calmann-Lévy, 2003)

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