Cambiare lavoro o cambiare il lavoro?

le domande chiave sul lavoro nelle economie etiche, solidali e sostenibili.

Tavola rotonda realizzata a Fa’ La Cosa Giusta il 1 maggio 2022

Sbobinatura rivista dai relatori.

con 

Veronica Tarozzi di Italia che Cambia, 

Diego Moratti di RIES 

Nino Lo Bello  Fa’ la cosa giusta Sicilia

Gianluca Ruggieri,  Università dell’Insubria e vicepresidente di ènostra

Andrea Calori, presidente di EStà – Economia e Sostenibilità

Alberto Gariboldi, Distretto Economia Solidale Varese

Marco Geronimi Stoll  e Chiara Birattari di smarketing° 

Francesca Forno e Antonia De Vita,  delle tre Università pubbliche (Trento, Parma e Verona) con cui smarketing° collabora per il master post-laurea Saperi In Transizione che forma changemaker per la transizione ecologica e sociale. È un master senza sponsor privati e le borse di studio sono raccolte dal basso, infatti al termine della tavola rotonda abbiamo fatto insieme un solenne brindisi per lanciare il crowdfunding che ha poi erogato alcune borse di studio.


MARCO GERONIMI STOLL

associazione smarketing° per l’etica della comunicazione

Siamo a Fa’ La Cosa Giusta ed è il primo maggio.
Dove e quando, se non qui e adesso, possiamo porci la domanda più esatta e più scomoda: cos’è il lavoro per le “altre” economie, e più precisamente: come vogliamo che sia il lavoro nei prossimi decenni?  

Perché è chiaro che i casi sono due, o il mondo va a rotoli, oppure il lavoro cambierà radicalmente: il senso del lavoro, lo scopo del lavorare, il giro dei soldi che uno guadagna e come poi li spende; la sua utilità sociale, il rapporto tra lavoro e non lavoro, tra studio e lavoro, tra lavoro e pensione, tra il dover-fare e il piacere del fare; le relazioni tra uomini e macchine, macchine che a volte ci sostituiscono lasciandoci disoccupati e altre volte ci potenziano come delle protesi formidabili.
Poi c’è la retorica moralistica sulla “voglia di lavorare”, pensate alla propaganda che i ricchi fanno contro il reddito di cittadinanza nella Repubblica fondata sul lavoro che non c’è.
Lavoriamo fin dalla preistoria e anche da prima: non c’erano la sveglia il lunedì mattina, il cartellino da timbrare e lo stipendio il 27, eppure le comunità umane hanno realizzato il mondo. Invece oggi il lavoro lo distrugge, il mondo: è una bestemmia contro qualcosa di sacro che si nasconde nelle nostre mani e nella nostra intelligenza…

Vi ringraziamo di essere qui, nello stand di smarketing° per rispondere a questa domanda volutamente generica e probabilmente per riformularla.
Per restringere il campo comincio a chiedervi: che mestiere faranno i nostri figli e nipoti tra dieci o vent’anni? Quali competenze, vocazioni, skills, capacità ha bisogno questo mondo delle altre economie (e presumibilmente il mondo tutto?).

Parto con una filastrocca per bambini: Bruno Tognolini ha appena tradotto questa di Jerri  Spinelli,

Io quando cresco cosa sarò?

Di tutti i mille lavori del mondo 

Io quando cresco quale farò?

Il pianta-zucconi

Il soffia-soffioni

Il piega-aeroplani

Il cucciola-cani

Lo sporcati-tutto

Il morsica-frutto

Il lecca-cucine

Il calcia-lattine…

È una delle questioni che vi pongo: il libro si chiama “io posso essere tutto” e mi fa pensare che tutti noi, in quest’economia che cerca di liberarsi, ci siamo abituati a lavorare sentendoci un po’ come una cellula staminale, che è potenzialmente qualsiasi cellula del corpo perché potrà diventare cuore, polmone o unghia del piede; così ci siamo abituati a cambiare spesso mestiere, imparare nuove cose… 

Tutti questi stand intorno a noi presentano gente che oltre al proprio mestiere di artigiano, commerciante, contadino, ristoratore… si arrangiano a fare un po’ il commercialista, il social media manager, il progettista, l’informatico, il copywriter, l’organizzatore, la logistica, le pubbliche relazioni, ora li vedete a tenere uno stand…
È meglio perché diventiamo più eclettici e disintermediati, ma fino a quale limite?  E possiamo essere così tutta la vita? e come la mettiamo con le specializzazioni, con quelle competenze cui servono anni, ad esempio con quelle abilità con un certo apparecchio che diventa quasi una protesi del tuo stesso corpo?
Perché cerchiamo di essere tuttologi e rinunciare alle specializzazioni, ma prima o poi avremo bisogno di quello bravo in quella particolare branca della medicina, dell’informatica, dei nuovi materiali… e entrambe le competenze (quella ampia e quella specifica) devono essere preparate: occorre studiare, fare esperienza, conoscere chi ci è simile e chi ci è complementare…
Buon primo maggio: cominciamo.

FRANCESCA FORNO 

Master Saperi In Transizione

Sono qui a raccontarvi come le tre università (Parma Verona e Trento) organizzano il master post-universitario Saperi in Transizione. E anche ad ascoltare voi tutti: che profili professionali avete bisogno, perché l’università deve essere al vostro servizio.
Diamo per scontata una premessa: l’economia solidale è uno strumento per una società più giusta.
In questi ultimi decenni l’università si è iper-specializzata, ai miei studenti cito spesso il concetto di “esperto” secondo Nicholas Butler: “è chi sa sempre di più in un campo sempre più piccolo, finché saprà tutto del nulla”.
L’università ancora ci prepara per essere “pronti per il mondo del lavoro”, ma lo fa fornendo i profili professionali che incanalano il sapere in gabbie sempre più strette, mentre a parole si invoca l’elasticità per stare al pari con un mondo che cambia in fretta. Capita che uno esca dall’università preparato per un lavoro che sembrava “nuovo” quando ci è entrato, ma quando finalmente s’è laureato quel lavoro non c’è già più.

Il master Saperi In Transizione ha un’impostazione radicalmente diversa, invita le persone ai saperi orizzontali. Non formiamo professionisti pronti a lavorare, ma professionisti pronti a cambiare il modo di lavorare.  Siccome molti iscritti già lavorano, questo riguarda le loro stesse istituzioni, i loro stessi datori di lavoro.
Ad es. nel pubblico impiego, dove questo spirito di innovazione sarebbe così importante. O nelle associazioni e nei cosiddetti “corpi intermedi”, che negli anni si sono progressivamente burocratizzati: pensate a quanto erano radicati nella società le associazioni (laiche e cattoliche), i sindacati, i partiti… erano capillari nel territorio e questa distribuzione spaziale consentiva di far arrivare al centro le istanze organizzative della periferia e a metterle in pratica. Ora si sono tutti “professionalizzati” e vedete il risultato, hanno perso radicamento territoriale.
Saperi In Transizione vuole ri-abituarci a questa sensibilità. Una delle sue caratteristiche è la reciprocità della comunicazione educativa:  oltre alle cose che insegniamo, anche le cose che impariamo dagli studenti: tutti noi siamo portatori di saperi,  in una didattica orizzontale.
Ad esempio siamo troppo disabituati a prendere le decisioni insieme, sembra una perdita di tempo. Effettivamente prende tempo, ma è importante dare tempo a quello che lo richiede, perché se vuoi innestare dei processi e progredire collettivamente, vale la pena di perdere tempo: andrai più veloce dopo, quando il processo sarà avviato.
L’università è al servizio della società; se dev’essere al servizio delle imprese, è meglio che lo sia con realtà come le vostre, che state facendo impresa in modo trasformativo. Vediamo anche imprese molto solide e durature che hanno questa continua ricerca di cambiare la società.
Quindi da questa discussione mi interessa sapere non solo che figure professionali vi servono ma anche che saperi e mestieri avete espresso voi pionieri, che ormai da trent’anni fate impresa in questo modo.
Formiamo ogni due anni circa 30 persone, vogliamo che abbiano le  vostre caratteristiche: dei progettisti territoriali in grado di replicare le vostre esperienze.
Per questo diciamo  che sapere cambiare è cambiare sapere. Significa non solo cercare lavoro ma anche cambiare il nostro modo di lavorare.

VERONICA TAROZZI  

Giornalista, attivista e redattrice di Italia che cambia

Grazie a Francesca Forno: voi siete i facilitatori del mondo come sarà domani; anche noi, di Italia che Cambia cerchiamo di svolgere questo ruolo: raccontiamo le realtà virtuose che si sono andate formando nel nostro Paese. 
Un tema cruciale è la facilitazione dei fermenti sociali, che passa dalla messa in reciproca comunicazione dei diversi movimenti.
Noi raccontiamo le diverse opportunità che si vanno formando nel territorio, e vediamo che è importante anche metterle in relazione tra loro.
Alcuni anni fa, proprio qui a Milano, avevamo formato alcuni tavoli di lavoro con esponenti di Italia Che Cambia e un centinaio di esponenti del mondo del lavoro, del terzo settore, del mondo accademico e vari specialisti di diversi settori. Non ci accontentavamo più di ragionare a breve termine, ci servivano anche ragionamenti sul lungo periodo: noi ci eravamo immaginati il 2040.  Tra questi tavoli di lavoro ce n’era uno, appunto, sul lavoro.
Innanzitutto bisognerebbe intendersi su cosa intendiamo per lavoro. Se torniamo indietro all’etimo, lavoro non significa solo quello che intendiamo oggi,  l’occupazione salariata.  Lavoro significa qualcosa che si fa nella società e per la società, anche quello non retribuito.
In quel tavolo di lavoro sul lavoro nel 2040 erano emersi, tra tanti, cinque punti fondamentali: 
1. L’utilità sociale, per cui ciò che è disutile per la comunità, inquinante, nocivo… non può essere considerato lavoro.
2. Le relazioni:  se si basa sulle relazioni interpersonali è lavoro.

3. La realizzazione personale, il lavoro come strumento per raggiungerla, non più un semplice mezzo.

4. La dignità, in riferimento alla qualità della vita in una sua definizione di un livello minimo come base per superare l’angoscia della sopravvivenza.

5. L’etica, nel senso di etica condivisa.

Sono punti che erano già importanti qualche anno fa, oggi evidentemente lo sono ancora di più.

DIEGO MORATTI

coordinatore della rete bergamasca di cittadinanza sostenibile e membro del direttivo nazionale della Rete Italiana Economia Solidale

Bene, le scelte devono essere fatte con l’etica e la consapevolezza: ora dobbiamo trasportarle in questo mondo che è cambiato definitivamente.
Il titolo di oggi, sapere cambiare, cambiare sapere è azzeccatissimo perché non sono i saperi che cambiano, deve cambiare l’ottica con cui si interpretano i diversi saperi.
I saperi e le competenze cambiano continuamente, da sempre: siamo noi che dobbiamo fare sistema, diventare come una sorta di associazione di categoria dell’economia sociale e solidale, con tutto ciò che ne consegue per le questioni di comunicazione e di sostenibilità economica.
Significa smettere di considerare tabù la parte economica, i conti che devono tornare: è la questione dei profitti, non vanno bene quando sono presi solo da pochi, ma dobbiamo darci da fare perché queste imprese solidali abbiano un’economia profittevole, che distribuisce valore. Questa è una premessa importante anche per decidere anche quali mansioni e competenze servono in un’economia solidale.

GIANLUCA RUGGIERI 

Università dell’Insubria e vicepresidente di ènostra

Pur avendo passato i 50 anni ho la fortuna di essere costretto a imparare cose nuove, questo mi consente diversi ruoli; quelli per cui Marco mi ha invitato qui oggi credo che siano due, come ricercatore universitario a Varese dove insegno agli studenti di Ingegneria della Sicurezza del Lavoro e dell’Ambiente (sono tre ambiti “pesanti”: ingegneria, ambiente e sicurezza del lavoro ), l’altro è che sono co-fondatore e attualmente vicepresidente di una cooperativa che si chiama Ènostra che produce e vende elettricità da fonti rinnovabili e offre servizi di efficienza energetica: un tentativo molto concreto di tenere insieme la comunità e l’impresa, la dimensione nazionale e i gruppi locali.
Significa mettere insieme cittadini, tecnici e, finalmente, le comunità energetiche…

Dei molti temi di oggi, ne voglio toccare due. L’inerzia e le competenze specifiche.
Un recente articolo su Internazionale parlava delle tradizioni culinarie, di come quelli che consideriamo cibi tipici, tradizionali dell’identità nazionale e locale, in realtà siano un’invenzione piuttosto recente: decine di anni, al massimo un secolo, un secolo e mezzo. Quindi non sono poi così tanto tipici o tradizionali, anche se la percezione comune li considera tali. Perché lo dico? Perché uno dei nostri grandi problemi, forse il maggiore, è l’inerzia. Ci riguarda tutti, come individui: come tecnico, come politico, come genitore, studente…
I tecnici sono quelli che se gli chiedi: “mi installi una pompa di calore?” rispondono “no, no, la pompa di calore non funziona, dobbiamo mettere una caldaia…” Lo dicono semplicemente perché  hanno sempre fatto così. Quel “sempre”, però, significa negli ultimi trent’anni, e se per trent’anni abbiamo fatto le cose sbagliate, non significa che dobbiamo farle sbagliate sempre.
Chi ce lo dice che quelle cose erano sbagliate? La crisi climatica, la crisi della biodiversità, le enormi diseguaglianze che continuano a crescere…
Questo in università è un problema enorme: chi come me ci insegna, ha studiato e si è formato come docente in un mondo che era sbagliato, che funzionava bene nell’immediato ma molto male in prospettiva: non era sostenibile. Ma siamo noi, selezionati in base a quel tipo di sapere universitario,  tutto costruito sul consolidamento di quelle cose che si sapevano venti o trenta anni fa,  che dobbiamo insegnare come quel sapere si smonta: è un enorme paradosso. È anche una sfida per ciascuno di noi. Ci costringe ad imparare che quello che abbiamo studiato ed insegnato prima era sbagliato e che dobbiamo imparare e insegnare qualcosa di diverso.

L’altro tema è quello delle competenze specifiche e tecniche: sono profondamente convinto che occorra studiarle: quel tecnico di cui parlavo prima deve sapere che la pompa di calore funziona, come funziona e come spetti a lui farla funzionare al meglio; la stessa cosa in molti processi industriali.
È una competenza tecnica, o la sai, o non la sai. Ma quello di cui non abbiamo bisogno sono i tecnici privi di consapevolezza, quelli che non sono capaci di tenere assieme la competenza molto specifica e di dettaglio con l’idea di tutto quello che c’è attorno. Altrimenti c’è il rischio di fare cose assolutamente idiote: potrei fare mille esempi, ne faccio solo uno. Qualche giorno fa avete visto con grande evidenza uno dei principali enti di ricerca italiano che vendeva come successo il fatto di avere realizzato una turbina che bruciava idrogeno e metano, quando secondo me se realizziamo l’idrogeno da fonte rinnovabile, bruciarlo non è certo l’uso migliore, meglio ad es. usarlo nelle celle a combustibile. Quindi si vende come successo quello che tecnicamente è un successo ma sul piano complessivo è un fallimento totale. Esempi come questo ne possiamo fare tantissimi.
Quindi sono essenziali entrambe le cose: è necessario che ciascuno di noi abbia sia  le competenze specifiche e che la visione generale.  In questi ultimi anni abbiamo perso questa unione dei due estremi, è molto importante ritrovarla.

FRANCESCO FORTINGUERRA 

fundriser nelle ONG

Oggi, primo maggio, ci stiamo ponendo una domanda importante partendo dall’idea “io posso essere tutto”. Vale anche per quell “eco-” che sta in ecologia e in economia.
Dietro allo slogan “salvare il mondo senza essere supereroi” c’è la cittadinanza ecologica e globale, ci sono gli obiettivi dell’agenda  2030 delle Nazioni Unite e anche dell’agenda 2050. Mi ci metto anch’io in prima persona, come professionista lo vedo ogni giorno, questo mondo di iper-specializzazioni che dovrebbe andare di pari passo con le questioni globali. Penso anch’io che la consapevolezza sia uno degli strumenti principali. La pandemia, le guerre ci portano a interrogarci sui cambiamenti.
I mestieri della relazione e della comunicazione sono centrali, nel senso che ciascuno oggi può mettere al primo posto la relazione tra se stesso e il mondo che ci circonda. Significa, per ciascuno di noi, fare un design del proprio mondo interiore e quindi di quello che vogliamo realizzare, e poi comunicarlo in modo pragmatico: è questo che porta ciascuno di noi a fare dei cambiamenti nel quotidiano.

NINO LO BELLO 

Fa’ la cosa giusta Sicilia

Riprendo la questione dell’inerzia posta da Gianluca: applichiamola alla Pubblica Amministrazione. In Italia è  stata strutturata con competenze relative: il tale ufficio ha competenza da A a B, il talaltro da B a C, eccetera; il primo non sa nulla del secondo e del terzo, nessuno ha una consapevolezza globale. Per esempio lo vediamo sui percorsi autorizzativi.
Certo, bisogna saper fare le delibere da A a B, ma anche occorre sempre avere una consapevolezza complessiva di tutto il sistema. Ci vuole una competenza ecosistemica, non quella specialistica limitata da A a B che nell’enciclica Laudato Si’ è chiamata Dotta ignoranza: non può chiamare competenza perché genera tantissime criticità. E anche perché ci fa spendere male i soldi, le risorse finanziarie che lo Stato mette a disposizione in maniera drasticamente sbagliata.
Esempio: un progetto di miglioramento ecologico delle sponde di un fiume, che non tiene conto di quello che succede a monte o a valle. Io vedo e controllo progetti che hanno poco fiato, dove tre, cinque milioni di euro vengono utilizzati male, senza avere nessun rapporto con l’ecologia di quel luogo, coi contadini, le attività sociali, come se quel pezzo di lavori volasse a trecento metri di altezza assolutamente slegato da quello che c’è intorno.
La cattiva amministrazione viene da questo presupposto culturale intrinseco, e non riesce a utilizzare al meglio i soldi.

ALBERTO GARIBOLDI  

Distretto Economia Solidale Varese

Parto dall’esperienza delle filiere dell’alimentazione nelle nostre reti solidali; è piccola e limitata, però funziona: lo vediamo ormai da diversi anni.
Vediamo che mettere in pratica azioni e progetti  basati sui valori dell’economia solidale sta funzionando e ci permette di raggiungere obiettivi ampi e diversificati: tutela dell’ambiente, sostegno dell’economia locale, fornire cibi buoni, creare nuove relazioni e comunità.
Ci ha sorpreso vedere che i risultati arrivano così, significa che il potenziale è molto grande.
Ci dispiace vedere che questi sistemi, che oltretutto permettono di escludere la criminalità organizzata nelle filiere, di ridurre i costi, di migliorare l’ambiente… non siano affatto sostenuti dalla Pubblica Amministrazione. 
Ci spiace soprattutto alla luce delle sfide di questi anni: siamo riusciti, col movimento dei G.A.S. con la Piccola e Poetica Distribuzione Organizzata del DES e la cooperativa Aequos (nata da un gruppo di G.A.S. lombardi e piemontesi)… siamo riusciti a vincere la sfida della pandemia, a fare le consegne a domicilio, a dare un servizio molto prezioso, in quei mesi, per la comunità.

Ci piacerebbe che qualcuno venisse a vedere come ci siamo riusciti: stiamo dimostrando che un’altra filiera -etica, relazionale ma anche professionale- è possibile, come è possibile un’altra logistica, moderna e tecnologica ma anche attenta all’ambiente e alle persone. Questi sistemi in effetti innescano circuiti virtuosi poiché generano posti di lavoro, autonomia alimentare e salute, riducono sprechi di carburante e di cibo, concorrono alla salvaguardia del territorio e della biodiversità, così come alla diffusione di saperi e culture. Insomma: lavoro, organizzazione, intelligenza e convivialità dove l’economia (sistemi produttivi, logistici, etc.) e la finanza convenzionali creano problemi personali, sociali, ecologici e climatici: pensiamo alla questione della sovranità alimentare ed energetica in questi giorni di guerra, come è posta in modo molto urgente e drammatico.
Sono valori che abbiamo enunciato e dichiarato per anni, ora che li abbiamo “messi a terra” e fatti funzionare potrebbero essere potenziati: di persone sensibili, anche fuori dai nostri giri, ce ne sono tante, dicono le statistiche: gran parte degli italiani e degli europei.
La mia risposta alla domanda che ci stiamo facendo è questa: occorre che sia sviluppato un modello di questo tipo, perché va a giovamento di tutta la collettività e perché ci aiuta ad apprendere una capacità che diventerà sempre più importante, cioè a leggere le nostre realtà ed impostare le nostre azioni in modo sistemico e collaborativo. In altre parole a fare rete.

MARCO GERONIMI STOLL 

smarketing°

A questo punto della discussione vi chiedo qualcosa sul ruolo del tecnico: vi dico la nostra testimonianza come smarketing° nel campo della comunicazione, ma sono convinto che valga anche in altri campi: fiscale, informatico,  medico, meccanico, legale…
Il ruolo del tecnico può essere ambiguo, anzi peggio: disabilitante; rischiamo di avere (e di essere) quelli che Ivan Illich chiamava “esperti di troppo”. Quelli che ti dicono: cosa vuoi saperne tu dei tuoi problemi, affidati a me che ho letto tanti libri e ho preso due o tre lauree. Così disegnano i tuoi problemi usando cornici mentali diverse dalle tue e invece di aiutarti ti frenano e ti deviano.
T’impediscono di imparare dal tuo mercato, ti impediscono di misurare le tue forze, ti allontanano dalla coscienza e dalla percezione generale: incompetente di te stesso  ti senti sbattuto di qui e di là come una pallina nel flipper da mille micro-problemi snervanti e spossanti del qui e dell’adesso, così l’ansia e l’accelerazione ti impediscono di vedere le cose nel loro insieme…
Pensate ai medici, a come certe volte ci impediscono il self help perfino sul nostro corpo, e a come è prezioso quando invece fanno bene il loro mestiere dicendoti come muoverti, mangiare, lavorare per curare la salute e non la malattia.
Ecco, anche per le malattie della comunicazione, della logistica, dell’organizzazione, della progettazione… dobbiamo curare la salute e non la malattia: ci serve una sovranità della descrizione dei problemi senza la quale le soluzioni non possono funzionare: nemmeno quelle potenzialmente giuste, figuriamoci quelle sbagliate che Nino, Gianluca e Francesca hanno descritto.
Qui intorno a noi abbiamo gli stand di alcune centinaia di piccole realtà di economia “altra” e in Italia ce ne sono molte molte decine di migliaia, probabilmente centinaia di migliaia. Qui a Fa’ La Cosa Giusta prima del Covid avevamo già fatto una tavola rotonda sulla responsabilità sociale del professionista e questo tema era venuto fuori con evidenza: dobbiamo imparare ad essere professionisti abilitanti, è una specie di professionalità nella professionalità, indispensabile per motivi alti (l’etica, il mondo che vogliamo) e anche per motivi terra-terra: il vecchio sistema della delega nel mondo digitale non funziona più. 

Attenti perché questo per noi è un vantaggio, uno dei pochi: fa la differenza tra noi aziende etiche e quelle del business-as-usual; loro con la separazione delle mansioni e le super-competenze all’inizio vanno più veloci, ma prima o poi inciampano nei problemi complessivi e si fanno male; lo vediamo tutti i giorni, grandi imprese brillanti del capitalismo che ad un certo punto vanno kaputt senza che si capisca neanche bene perché: è un problema di ecologia interna e più sei grande e rigido più è probabile che ti freghi da solo. Invece noi siamo più resilienti (sì, resilienti, riprendiamocela questa parola che ci hanno rubato) se abbiamo una ecologia interna che cura la salute.

Questo c’entra coi mestieri, con le abilità e con le abitudini professionali.

Noi siamo comunicatori, quasi tutti noi (tranne i più giovani) quindici, vent’anni anni fa lavoravano in agenzie che facevano tutto chiavi in mano: caro cliente affidati tutto a noi, separa il marketing da tutti gli altri comparti, fai disegnare a tavolino un’immagine artificiale del tuo brand così potremo dire alla gente compra, compra, spreca, spreca, consuma-consuma. Così il tuo cliente sarà felice di sprecare tutti i suoi soldi duramente guadagnati per stupidaggini utili solo a intasare le discariche di pattume.
Noi abbiamo disertato perché non ce la facevamo più a guardarci nello specchio: per motivi morali, ecologici, professionali, di senso del lavoro: dodici anni fa è nato smarketing° come rete di professionisti, ma c’è stato un lungo percorso di una decina di anni per arrivare al 2020, quando abbiamo fondato l’associazione smarketing° per l’etica della comunicazione.
Gran parte di quel decennio è servito per imparare che non basta disertare dal marketing del consumismo e scegliere di pubblicizzare le cose buone invece di quelle cattive, non puoi fare questo passaggio senza rifondare profondamente il processo della comunicazione: dietro l’aspetto etico c’è quello tecnico, nel nostro caso sono estetiche, retoriche, diete mediatiche, responsabilità sulle narrazioni e sugli immaginari che susciti…  dietro l’aspetto tecnico c’è la descrizione dal basso del problema e dietro tale descrizione c’è il design della salute da progettare insieme, tecnico e cliente.
Ripeto: etica, tecnica, cura, salute.  Sono quattro fasi logiche, ma se siamo bravi diventano quasi sinonimi, in modo fluido: è un bel lavorare.
Per riuscirci occorre che anche noi tecnici cambiamo la filiera. Nel caso della comunicazione, sempre meno “campagne chiavi-in-mano”, sempre più consulenze, formazione, facilitazioni, affiancamenti, semilavorati… siccome in questo mondo diventiamo tutti comunicatori io, comunicatore, ti insegno a fare a meno di me.
Ad esempio non ti faccio io il sito: veniamo da te due o tre giorni e montiamo insieme in semplice template, lo popoliamo insieme e ti mostriamo come gestirlo; dopodichè togliamo le rotelle alla bici e vediamo se sai pedalare da solo. Successivamente se serve aiuto noi ci siamo, ma di solito bastano poche ore on line.
Non è facile ma è bello, significa che ogni volta che lavoriamo con un apicoltore, un agricoltore, un fashion designer, un installatore fotovoltaico… noi insegniamo qualcosa a lui e lui insegna qualcosa a noi: diventiamo anche noi un po’ apicoltori, contadini o sarti…  come ha dimostrato Don Milani, la comunicazione educativa è reciproca o non è: vale anche per noi adulti, tutta la vita.
E poi occorre facilitare la messa in rete: ho 68 anni e da quando ne avevo 18 sento dire a tutti “bisogna mettersi in rete”, ma ancora che difficoltà!  per queste piccole imprese mettersi in rete significa sentire abbastanza fiducia per condividere la propria piccola sovranità. Mica facile: spesso è quella fragile e precaria di chi si mette in proprio senza avere un papà ricco alle spalle ma non può o non vuole occuparsi come dipendente, e se leggete tutti i manuali sul mettersi in proprio (tranne il nostro) leggete: vinci! sbaraglia la concorrenza! se ci credi ce la puoi fare! credi solo in te stesso! e anche: stai sempre attento a non farti fregare! Così resti solo e individualista, lavori tutta la vita per le banche e vieni sfruttato dal padrone più fetente di tutti che sei tu stesso: addio vita familiare, relazionale, culturale… e magari ti eri messo in proprio per realizzare il tuo sogno di trovare un senso della vita attraverso un lavoro che amavi.
Perché non pensiamo anche ai GAS di professionisti? chi l’ha detto che il processo che ha narrato Alberto non possa valere anche nel terziario, ad esempio rendendo reciproco quel rapporto tra primario e terziario (grossomodo tra città e campagna)? Diverse volte noi di smarketing abbiamo proposto a gruppi di aziende etiche e valoriali ( ad es. di un comparto o di un territorio) di fare quello che abbiamo chiamato “GAS della comunicazione”, cioè di mettersi insieme per comprare consulenza e affiancamento per siti, grafiche, etichette, animazione territoriale, eventi, anche per fare gli stand insieme in posti come questo…  riducendo costi, fatica, stress e evitando di sprecare le poche occasioni.
Qualche volta ci siamo riusciti, ma non spesso: c’è ancora il sospetto che il comunicatore sia un tecnico di cui fidarsi fino a un certo punto, specialmente se  vuole farti mettere insieme con dei concorrenti e inculcarti soluzioni a un problema che non avverti. Ecco: come vedete il gatto si morde la coda, la rete è una bella cosa ma non vale se siamo noi, dall’alto delle nostre specializzazioni,  a dire  che devi metterti in rete: possiamo provare a spiegartelo, ma dobbiamo farlo non “troppo bene”: se usiamo la comunicazione persuasiva per coinvolgerti a collaborazioni per le quali non sei pronto, poi verranno decine di riunioni con effetto-condominio e la rete si sgretolerà nell’entropia. Grazie, abbiamo già dato: è la differenza tra il paradiso e l’inferno che certamente conosciamo tutti.
Per far rete non serve la comunicazione persuasiva, non bastano le belle slides, né le frasi più evocative, né l’oratore carismatico: serve la facilitazione dei processi! serve gente brava coi post-it e coi canvas, che sappia far esprimere dal basso dubbi, ansie, aspirazioni, piccoli interessi e li sappia fare evolvere in visioni più coerenti; che rompa gli isolamenti di secoli, che superi i pregiudizi.
Ci vuole gente brava, che ne capisca di economia, psicologia, sociologia, biologia, amministrazione, bandi, comunicazione… Quelli che si formano nelle mono-discipline invece fanno troppa fatica: tanti sono bravissimi, lo so bene, il problema però resta: la formazione universitaria settoriale genera inerzie.
Ho conosciuto da vicino alcuni che nel dopoguerra hanno intensamente studiato fisica atomica perché credevano all’atomo buono… avevano tanto studiato per essere una élite di innovatori e invece si sono trovati obsoleti come le locomotive a vapore. La loro disciplina “pesante” è stata come un tir in corsa che non riesce a sterzare: che fatica ( e che lutto) per loro convertirsi verso una logica diversa!

Occorre una professionalità multidisciplinare ed elastica, gente brava ad aiutarci a pensare insieme, a farci progettare intersoggettivamente e fattivamente.
E deve lavorare lì nel territorio, in quella valle, in quel distretto; vi assicuro che uno che arriva da Milano e atterra lì come un marziano, anche ipotizzando che sia bravissimo, fatica tanto e conclude poco. 
Insomma servono, in giro nei tanti territori della Penisola, tanti professionisti della facilitazione al cambiamento, tante persone come quelli che, probabilmente, si iscrivono al Master di cui stiamo parlando.

VERONICA TAROZZI  

Italia che cambia

Questo punto è molto importante, ho recentemente partecipato a un tavolo di lavoro su conoscenza e informazione: sono giornalista, docente e interprete.
Partecipavano persone con diverse professioni ed esperienze di vita, la conclusione cui siamo giunti può sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma è un paletto importante: l’importanza dell’interdisciplinarietà. Dovrebbe essere agevolata a partire dalle scuole, se stiamo andando (o almeno auspichiamo di andare) verso una società più evoluta dovremmo pensare a noi stessi come a cellule di un unico organismo più complessivo, per lavorare tutti verso un obiettivo comune: rispettare l’ecosfera, le persone.
Come diceva Gianluca, ci sono esperienze che sembrano molto interessanti dal punto di vista scientifico ma poi hanno una ricaduta devastante dal punto di vista ambientale.
C’entra col tema di oggi, occorre fare entrambe le cose: cambiare lavoro e cambiare il lavoro. Come veniva fuori da quel tavolo di studio sul lavoro di Italia che Cambia del 2015, è fondamentale la presa di coscienza e di consapevolezza da parte di ciascuno di noi.
È quello che si richiede a chi fa un lavoro specialistico. È chiaro che quello che gli chiediamo è di essere il più possibile competente nel ruolo che interpreta nel suo settore, ma se non ha ricadute positive a livello sociale o se la persona non viene riconosciuta nel suo ambiente di lavoro, c’è anche il rischio di un crollo di motivazione.
Probabilmente i ruoli specialistici continueranno ad essere sempre più importanti, ma occorre ragionare su uno spettro ampio, non soltanto sul presente ma in una visione più lunga anche se occorre ricordarsi sempre di guardare il qui-ed-ora.
Della disoccupazione tecnologica abbiamo esperienza già da diversi decenni, e adesso è evidente più che mai. Da lì nasce l’esigenza di uscire dal ruolo, dal lavoro ripetitivo con poca soddisfazione personale, lasciando alle macchine quelle incombenze. Il mondo si sta evolvendo così, che lo si voglia accettare o no.
Occorre facilitare, dare senso a questo processo e allo stesso tempo dobbiamo riprenderci tutti quei ruoli fondamentali ( che restano fondamentali) che non possono essere sostituiti dalla macchina: i lavori che resteranno sono tecnici, specifici, ma dovranno essere più trasversali possibili.
Serviranno molte soft skills, abilità che non riguardano le competenze tecniche ma quelle umane: come interagisci con i colleghi, come sei creativo, come affronti i problemi in modo non meccanico, non ripetitivo.
Mi viene da pensare al ruolo tradizionale del medico com’era considerato in cina: il medico bravo era quello che aveva pochi pazienti, era colui che, come diceva Marco, riusciva a diventare inutile per i propri pazienti, che restavano a lungo sani. Ad esempio insegnava a fortificare il sistema immunitario. Un medico con tanti pazienti era considerato fallimentare: evidentemente non faceva bene il suo mestiere.

Aggiungerei alla discussione il tema dell’abbandono del lavoro, quella che chiamano great resignation, che nel periodo post-pandemico sta diventando un fenomeno notevolissimo. Merita un ragionamento profondo, il mondo del lavoro non si sta evolvendo in maniera abbastanza veloce per star dietro a tutte le modificazioni fondamentali che ci stiamo dicendo qui stamattina, che sono indispensabili per ciascuna persona per sentirsi rappresentata, utile, realizzata.
Allo stesso tempo tutte quelle garanzie che avevamo un tempo, che avevano anche i giovani appena entrati nel mondo del lavoro, oggi sono smantellate; le persone in questa dimensione precaria non sono più disposte a fare i sacrifici che potevano essere accettabili prima, quando c’era il posto fisso e il lavoro garantito per l’intera vita.

Tutto questo per sottolineare l’importanza di un lavoro in cui le persone si sentono realizzate.

CHIARA BIRATTARI

smarketing°

Una testimonianza. Ho organizzato per una decina d’anni, assieme al collettivo Chain Workers (è un collettivo nato nel 1999 che si occupa del lavoro precario) la May Day Parade, che era la parade dei lavoratori precari.
Abbiamo individuato fin dal pacchetto Treu del 1997 come il lavoro veniva smantellato; noi eravamo la generazione che non voleva lavorare col lavoro salariato, volevamo trovare altre forme di welfare che andassero a sostituire le garanzie classiche del lavoro precedente (il salario con la tredicesima, eccetera).
Negli anni è stato fatto un gran lavoro, abbiamo parlato di reddito di base incondizionato: è una forma di welfare che va a sostenere chi lavora nei mestieri nuovi, che hanno bisogno di una base di reddito perché le persone hanno bisogno di una sicurezza economica e sociale, delle relazioni, che permetta di avere una vita degna.
Altrimenti è inutile parlare troppo di nuovi mestieri, di startup, di artigianato digitale, di economia circolare, di imprenditoria femminire, di ritorno al’agricoltura… resta tutto appannaggio di chi ha alle spalle una famiglia che li tutela dal rischio e supporta le spese e le perdite iniziali.
Invece ci dev’essere una redistribuzione delle ricchezze, se si vuole andare verso la transizione: dev’essere possibile.
Diversi modelli europei sono già andati in questa direzione, cominciamo a copiarli. Se no diventa una scelta molto individuale, invece la transizione dev’essere una rivoluzione: collettiva e collaborativa. Se non se ne tiene conto manca un pezzo a tutto il ragionamento che in questa discussione stiamo facendo.
C’entra con quello che Gianluca diceva dei tecnici: una volta c’era una distinzione tra intellettuali e tecnici, oggi questa cosa non ha più senso, il tecnico oggi ha un ruolo davvero importantissimo, lo vediamo col mondo dei maker.

Io personalmente (e molti di noi di smarketing°) facciamo parte di quella sfera che qui a Milano ha una certa importanza: makers space, fab-lab…
Non sono solo dei co-working con molto hardware, come spesso si crede. La piccola scala, la prototipazione rapida, i macchinari condivisi per piccole produzioni on demand…  è un mondo che si è aperto ed è alternativo alle grandi produzioni su grande scala. Basta pensare alla storia di Arduino…
Ci sono delle nuove strade in cui la bravura del tecnico ha un’importanza formidabile, fa la differenza: ma solo se è un tecnico consapevole. Sono cose nuove, la competenza si ottiene attraverso lo scambio e l’autoformazione. Infatti questi tecnici sono anche artigiani, artisti, maestri, attivisti del lavoro liberato: hanno un approccio peer-to-peer, sono una rete in cui i nodi sono paritari e si scambiano le competenze e i dati più diversi:  istruzioni, cartamodelli, software, hardware da stampare in 3d…
Quindi non c’è solo la formazione dall’alto verso il basso, serve un’auto-formazione nella base che avviene per scambio di esperienze.
Ecco che non possiamo più pensare che la formazione avvenga senza sporcarsi le mani, nelle aule universitarie e nelle accademie, né che solo i docenti plurilaureati siano in grado di formare. Ad esempio i tecnici sono molto preziosi per formare ai nuovi mestieri della transizione, diventano come dei mediatiori linguistici tra i diversi linguaggi: capita ogni volta che ci spiegano come funziona un dispositivo svelandone anche l’aspetto umanistico, Pirsig direbbe: trovare il Budda in una pompa di calore. 

ANDREA CALORI 

presidente di EStà – Economia e Sostenibilità

EStà è un  centro di studi e formazione indipendente e non profit che fa ricerca e formazione. Una delle ragioni per cui ci siamo costituiti dieci anni fa era proprio perché alcuni di noi erano fuoriusciti dall’università (e altri stavano con un piede dentro e uno fuori) non trovando piena soddisfazione rispetto proprio a questi temi.
Altri di noi venivano da altre esperienze. 

Guardando i programmi del master e sentendo di voi ho pensato a queste due cose da dire.
La prima è un’osservazione della realtà milanese e lombarda sul piano della formazione universitaria. Negli ultimi due o tre mesi sono nati diversi master, corsi di specializzazione o corsi di laurea su temi che hanno più o meno a che fare con la sostenibilità. Sono andati deserti, non ci sono iscritti; e stiamo parlando delle università milanesi e lombarde… Al contrario vedo molte scuole di attivismo, magari fatte da ONG, dove invece c’è domanda. Questo fa molto pensare, perché le due cose succedono nello stesso momento. La dico in maniera un po’ sommaria: è un segno che il nostro sistema formativo è rimasto parecchio indietro. Dentro all’università non abbiamo sviluppato le competenze delle integrazioni tra le discipline, specialmente in questi campi che per definire in maniera sintetica chiamiamo economie sostenibili.
Non siamo presenti neanche sul piano internazionale, questa lacuna viene molto da lontano. È una delle ragioni per cui quando i giovani cercano cose di questo genere, non le cercano lì. Se con youtube io posso avere Noam Chomsky, Robert Costanza e i migliori sulla mia scrivania, l’alta formazione me la faccio così e le esperienze ce le facciamo in posti come qui, a Fa’ La Cosa Giusta, nelle riviste che sono girate, nelle situazioni dove tutti noi qui adesso, più o meno, ci siamo formati. Io stesso quando ero ragazzino ho avuto la fortuna di incontrare grandi maestri su questi temi in università, ma poi sono cresciuto qua dentro fino all’età dei capelli bianchi.
Questo non succede da adesso, ma da decenni e quindi dovremmo interrogarci al di là di ogni micro-esperienza che stiamo facendo. È un tema di consapevolezza, di identità, direi di postura: di come si sta, noi, sia in questi mondi qua sia in mondi più “acculturati”. C’è un’evidente disparità, direi anche una concorrenza: se i giovani non vanno a quei master e quei corsi di laurea è perché si capisce che la risposta non è lì, è da qualche altra parte.
Secondo me dobbiamo porci il problema del livello alto, sistemico e un po’ “duro”. Al di là delle nostre esperienze, è l’ora anche di porci sul piano istituzionale.
La seconda testimonianza che vorrei raccontarvi è che noi, da tempo, osserviamo in Italia e all’estero un fenomeno. Abbiamo appena finito una ricerca su diciotto città europee che ci dà un’informazione molto chiara
Abbiamo visto le storie di giovani che costruiscono dei lavori su questi temi che riguardano il cambiamento in questi ambiti: cibo, economie informali, economie formali, agricoltura urbana, meccanismi di vendita… noi lavoriamo molto sui temi del cibo, ma tocchiamo anche alcuni altri che qui sono rappresentati (non tutti ma diversi).
Ebbene, non c’è distinzione tra lavoro salariato, a tempo, semivolontario e volontario, avere intorno un gruppo di soggetti, l’autoformazione… non c’è differenza, incontriamo decine di storie che sono tutte così, senza soluzione di continuità tra tutte queste diverse situazioni.
Interroghiamoci su questa questione: vedo lì appesa la vostra campagna per la FIOM, ecco: questa situazione ad esempio crea problemi di relazione col mondo sindacale, come con quello imprenditoriale, come con altre istituzioni, e in questo mi riallaccio a quello che dicevo prima sull’università: dopo essere cresciuti in questi nostri mondi “altri” (dove individualmente ci troviamo anche bene, forse già da un po’ troppo tempo) forse è maturo il momento di chiederci che postura avere davanti a quelle istituzioni, di fronte a quella che una volta chiamavamo la “struttura”. 
Dobbiamo farcela, questa domanda, specialmente se progettiamo la social innovation: siamo a Milano, la dobbiamo chiamare social innovation perché “innovazione sociale” suona un po’ così; eppure guardate le esperienze che si chiamano innovazione sociale: che potenza hanno rappresentato! a partire da queste, qui dentro (che abbiamo sempre chiamato economia solidale… suona meno fino) per andare avanti sui tanti esempi che da qui si sono sviluppati. 

Non è ormai il momento di uscire dai nostri mondi e interloquire con le istituzioni? direi che è ora di fare  un ragionamento più strategico e sistemico, precisamente vedendolo con l’occhio dei giovani, delle loro forme di lavoro molto ibridate, della formazione che fallisce o non fallisce a seconda di come si innesta sull’autoformazione e sulla trasversalità. 

Se no continueremo a vedere il Sole 24 Ore che parla di social innovation raccontandola come la intende quel mondo, mentre l’economia solidale resterà qui tra di noi.  

VERONICA TAROZZI  

Italia che cambia

Accanto ai ragazzi sempre più precari ci sono le persone che il lavoro fisso ce l’avevano e stanno dando le dimmissioni, si sono “rassegnate”.
Italia che Cambia ha raccontato diverse di queste storie e anche l’”ufficio di scollocamento”, a cui  tante persone si sono rivolte per licenziarsi e cominciare una vita nuova.
Sono persone che volevano realizzarsi, riprendere le redini della propria vita; ad es. tante persone che si sono delocalizzate, che hanno mollato tutto e sono andate in campagna a cercare uno stile di vita più rispondente alle proprie esigenze personali.

In primo piano c’è la qualità della vita, che non corrisponde esattamente con essere più comodi o faticare di meno. Quanti ragazzi hanno lasciato gli studi per tornare all’agricoltura. Questo pone anche il problema delle città: erano luogo di comunità e incontro, oggi sono vissute come alienazione e separazione, anche a livello di relazioni umane: la natura ha i suoi ritmi, considerati più umani.
Ecco, questa è una parte di ciò che abbiamo raccontato: ovviamente c’è anche la questione della presa di coscienza da parte delle aziende di organizzazioni del lavoro meno verticistici e più condivisi, in cui i dipendenti non sono trattati come ingranaggi. Ovviamente partecipi volentieri agli obiettivi dell’azienda se si tratta di valori condivisibili, non se devi farti sfruttare per alzare il fatturato. Qui entrano in gioco i processi di facilitazione. La facilitazione, come procedura, nasce proprio nel mondo dell’imprenditoria, lo sappiamo.
E questo ci porta a raccontare le B corp. Il termine “B-Corp” o Benefit Corporation, identifica aziende che accettano una misurazione delle performance ambientali e sociali allo stesso modo in cui si misurano i risultati economici. Si impegnano a rispettare standard di impatto positivo sui dipendenti, sul contesto sociale e sull’ambiente.
Italia che cambia ne ha raccontate diverse: come i dipendenti sono coinvolti e come questo incide sul welfare. E anche come la collettività intorno all’azienda ne è coinvolta.
È sorprendente sapere che mentre c’è stata questa crisi in tanti settori durante il Covid, la maggior parte delle B-corp hanno migliorato gli utili, anche in Italia, dove ce ne sono già una trentina. A dimostrazione una migliore solidità etica e sociale comporta una migliore salute generale. È l’opposto del luogo comune che dice: se ti comporti bene, ci rimetti.

Raccontiamo anche le Teal organization, un’altra esperienza molto interessante di condivisione della governance dell’azienda coi dipendenti, che diventano soci e programmano il lavoro in modo condiviso. 

Insomma è la fine delle riunioni in cui il capo distribuisce le varie task e i subalterni al massimo possono ridere delle sue spiritosaggini.

FRANCESCA FORNO 

Master Saperi In Transizione

Le esigenze che avete espresso sono quelle che ci hanno accompagnato nel progettare il Master. Andrea Calori prima diceva: ci siamo tutti formati qui.
Potrei dire la stessa cosa di me stessa.  A Bergamo per molti anni ho insegnato e portavo “dentro” nei seminari la rete di economia solidale locale: Cittadinanza Sostenibile (oggi Bergamo Sostenibile) che si stava organizzando. Sono iniziative che organizzavo all’università, in maniera un po’ spericolata: erano iniziative aperte e frequentatissime.
Quando mi sono trasferita a Trento ho mantenuto quest’idea di università come luogo aperto, di apprendimento che non passa solo dai libri ma anche dalle prove-ed-errori che facevano le persone e le società; anche il mio profilo scientifico si è costruito studiando le realtà dell’economia eco-solidale. 

La stessa cosa hanno fatto gli altri due direttori a Parma e a Verona. Già, perché anche questa è una novità: è un master che abbiamo fatto insieme, tre università pubbliche italiane che invece di farsi concorrenza e coltivare ciascuna il suo  orticello hanno fatto cum-currenza, si sono messe a correre insieme. È anche un master itinerante, ogni due anni cambia ateneo e territorio, magari con l’ambizione di connettere le varie anime dell’economia trasformativa e portarle a fare sistema, perché questa è la lacuna di tutte queste esperienze. 
Nelle ambizioni e nei sogni del Master c’è appunto questo: facilitare la messa a sistema di questo mondo: quindi mettere in comune le esperienze e “uscire”.
Uscire nel senso che dai nostri studi emerge chiaramente che tutte queste esperienze sono ancora delle nicchie: creative, belle, importanti, esempi potenti… ma che hanno difficoltà a uscire fuori dai propri limitati confini. 

Parliamo spesso a studenti che non sanno nemmeno dell’esistenza di questi sforzi di innovazione sociale, di ricucitura sociale.
I problemi che soffriamo oggi non dipendono dal fatto che ci manchi qualcosa, ma dalla perdita di alcune capacità, come quella di fare insieme.
I guai ecologici e sociali che viviamo oggi nascono in grandissima parte dalla nostra progressiva incapacità di agire collettivamente, in quanto società.
Dopo avervi ascoltato mi piace pensare a quando darete un’occhiata al programma dettagliato del master, vedrete che troverete molte cose interessanti.

Nella mia esperienza ho visto com’è importante che uno studioso riporti nel territorio le cose che ha studiato. Siamo pagati per studiare, anzi: voi cittadini ci pagate per studiare! è giusto che questo sapere non resti nelle aule universitarie ma ritorni da dove è venuto.
Invece capita che chi, ad esempio, lavora in un Comune non sappia che c’è un dibattito sui sistemi globali del cibo: se non riportiamo queste conoscenze lì dove servono, è difficile che si trasformino in azione.

Il master mette in comune i saperi (ad esempio i tanti libri che noi accademici ci studiamo) e le competenze. Abbiamo cinque moduli, andateli a vedere, vedrete che in ciascuno ci sono delle eccellenti competenze pratiche che entrano e si mettono in circolo orizzontalmente.
Anche le metodologie: la partecipazione è fondamentale, proponiamo anche un laboratorio di Teatro dell’Oppresso, un classico approccio della pedagogia della liberazione che parte da Freire e arriva a Boal. Io che studio sociologia dei consumi, vedo bene questo strumento come liberazione dall’oppressione del consumismo, che ci fa lavorare molto di più di quello di cui abbiamo bisogno.
Uno dei moduli riguarda la progettazione.  Naturalmente non è tenuto solo da esperti progettisti, anche da chi ha realizzato progetti, e tra gli studenti c’è sempre chi ne ha realizzati alcuni senza la basi teoriche o tecniche: anche lui ci istruisce perché meglio di noi ha sperimentato problemi, difficoltà, risorse alternative, soluzioni fantasiose, ripieghi…

Il master si ritrova anche su un’altra esigenza, il costo.  Andrea, forse i giovani non si iscrivono ai master milanesi di cui parli anche perché le tasse universitarie sono proibitive.
È mai possibile che uno, per poter dedicare tutta la vita a far del bene alle comunità, debba pagare delle tasse così alte? 

Il problema ne nasconde un’altro: molti master che si indirizzano alla sostenibilità ricevono delle sponsorizzazioni: soldi che giungono da imprese importanti, difficilmente intonate sulla nostra musica. Noi evitiamo, anche se è vero che il loro contributo calmiererebbe i costi con le borse di studio. 
Anche il nostro master ha dei costi, tra l’altro sono tutti in chiaro sul sito.
Noi innanzitutto riusciamo ad essere molto più economici, nonostante il livello alto: 2600 euro per 1500 ore. Ma anche 2600 euro possono essere molti, per le tasche degli studenti: che fare? Anche noi vogliamo offrire delle borse di studio, ma evitiamo certi sponsor: preferiamo fare diversamente.
Oggi stiamo qui anche per inaugurare questa pazzia: lanciamo un crowdfunding per delle borse di studio pagate dalla comunità, attraverso Produzioni dal Basso.
Funzionerà? Vedremo: anche qui impariamo per prove ed errori. Se ci riusciamo, il master sulla cittadinanza ecologica e globale sarà finanziato anche dai cittadini ecologici e globali.  


Per saperne di più: https://www.tiltransition.eu/

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